Nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, resistere alla massificazione del banale diventa un atto politico - oltre che autenticamente artistico - e lo è a maggior ragione se si sceglie di compierlo tramite la fotografia, strumento per eccellenza della commercializzazione dell’ego contemporaneo.
Solo piegando il mezzo alla necessità di dialogare si può attraversare il reale senza esserne inghiottiti. Ecco che allora il volto di un vecchio guerriero, strappato alla strada nel tempo di uno scatto, riscrive il presente parlandoci del passato: è la sorpresa nel suo sguardo che ci obbliga a stupirci insieme a lui, il quale adesso giace impresso su un cartoncino insieme ad altri sconosciuti, pronto a popolare di domande il nostro avvenire. Sono i musicisti di periferia, quelli che il fine settimana macinano chilometri per calcare qualche palco sgangherato e che emergono dal turbinio della vita quotidiana, dalla routine settimanale del loro normalissimo lavoro sottopagato, a destabilizzare i nostri pregiudizi.
Quasi a dirci che anche gli operai, i bidelli, i piccoli commercianti o i disoccupati sono capaci di spostare i margini dei ruoli sociali che hanno appiccicato addosso e meritano di restare impressi su carta, con la rabbia in volto e i tormenti di chi ha troppo poco tempo - e forse troppi guai - per preoccuparsi anche di ricalcare le nostre aspettative. E poi ci sono loro, gli attori di teatro, il grido di un’arte che sopravvive in questa contemporaneità fatta di abbandono, ove la voce, gli sguardi, il tempo e lo spazio si velocizzano e si comprimono su uno schermo, in un crescendo di dispersione. Ci fissano, questi volti sfigurati dalla recitazione, dallo sforzo di deformare il presente per dare forma ad un rifugio in cui, per qualche ora, sognare, smarrirsi, emozionarsi ancora. O in una parola, sentirsi viventi. Perché il teatro - soprattutto se clandestino e marginale - ci impone di restare vigili e trovare nel silenzio dell’ascolto le domande di cui abbiamo bisogno. Guardali qui, gli attori, immortalati in un attimo pieno di significati, le loro facce sudano convinzione e ti invitano a lottare, sempre.
Questa è la magia del non detto, di cui l’istantanea si fa portavoce muta. Così un forcone agitato sulla scena, una clessidra, un profilo incantevole sotto un cappello e un indice che buca l’obiettivo della macchina fotografica ci trasportano in una nuova spirale di questioni, curiosità o ricordi. Trasmettono storia e trasudano fatica, passione, impegno. L’immagine diviene qui il testimone di un processo di creazione circolare; o meglio, di una matriosca di possibilità che dal fotografo rimbalza sul pubblico e dal pubblico sul protagonista dello scatto, fino a toccare noi, chiamati a partecipare, a rilanciare e a conservare il solco in cui la bellezza si esprime. Una bellezza fatta di memoria e sorpresa, lontana dagli sfarzi colorati delle giostre virtuali, in cui tutto passa senza lasciare tracce.
(Ingrid Pedrazzini)






































































